Secondo capitolo del mio diario scritto negli anni in cui avevo appena iniziato a fare il volontario in Emergency.
Mancava poco all’attacco americano all’Iraq, annunciato con una serie di clamorose balle sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. In tutto il mondo la risposta furono manifestazioni oceaniche, capaci di unire molte anime del mondo pacifista. La guerra si fece comunque e fu ovviamente un disastro, i cui effetti continuano oggi.
Qui racconto la manifestazione a Roma, a cui mi ero aggregato con la CGIL e alcuni amici.
In piazza contro la guerra all’Iraq
Roma, 15 Febbraio 2003
Mi alzo alle 4.30, anticipando la sveglia di dieci minuti, tanto non avevo dormito un cazzo comunque. Ho passato la (breve) nottata pensando a come sarebbe stata la mia giornata a Roma e soprattutto preoccupandomi di aver dimenticato di mettere qualcosa nel mio zainetto già sovraccarico: panini, cioccolata, caramelle gommose, un libro e l’almanacco di Carta per il viaggio, un paio di straccetti di pace, la macchina fotografica, sampietrini (si scherza) e Rinazina per il raffreddore.
Con un paio di saracche dovute alla mia non altissima disponibilità a svegliarmi prima del gallo, brancolo come uno zombi per la casa e incrocio una moka con cui scambio un paio di grugniti nell’attesa che il caffé sia pronto.
Sorseggio l’orrida ciofeca saltellando tra i canali che, alle cinque del mattino, offrono un palinsesto di gran lunga superiore alle prime serate di Rai-set (o MediaRai): film porno, pellicole in un bianco e nero Lumieriano, vecchi sketch di Francesco Salvi.
Dopodichè, ancora rincoglionito, salto in macchina (che è tipo un iceberg e scricchiola come un vascello del Seicento) e vado a pigliare il gruppo di amici con cui andrò a Roma.
Risparmio tutte le gag del mattino (una portiera in faccia e altre amenità) e salto anche i particolari dell’interessantissimo viaggio in corriera, sennò qui non si finisce più. Partiamo alle sei circa e arriviamo a Roma all’incirca per le 11.30 (in questo lasso di tempo, fingete pure che fossimo in sonno criogenico come nel film “Alien”, tanto è più o meno lo stato in cui eravamo).
Arrivati in zona Tiburtina, dopo aver discusso per tutto il viaggio per decidere cosa avremmo fatto a Roma (andare al raduno? Intercettare il corteo a metà? Andare direttamente in piazza San Giovanni? Assaltare un Mc Donald’s?), optiamo infine per seguire la massa (la comitiva della CGIL) come pecore (o, se preferite, come le masse che si mobilitano compatte).
Alla metro quelli della CGIL aprono un dibattito interno per trovare il modo di prendere la metropolitana a sbafo (ma Veltroni non l’aveva messa aggratis?), dato che c’è una specie di sorcio romanaccio che protesta violentemente nel proprio tipico (e incomprensibile) idioma, quando tentiamo di passare.
Alcuni scellerati (onesti) vanno a farsi il biglietto, sembra; io e la mia brigata, decidiamo che la metro non si dovrebbe pagare, attraversiamo lo sbarramento del sorcio con disinvoltura e ci dirigiamo allegramente ai vagoni, ricevendo dal romanaccio una serie di “mortacci” rassegnati.
Durante il viaggio ci importuna un altro romanaccio (sapete, Roma è piena di romanacci) che ci espone la sua weltanschauung molto originale, secondo cui “gli Stati Uniti non fanno la guerra per il petrolio perchè ce l’hanno già in Texas e sono autosufficienti” e “Saddam è come Hitler perchè ha ammazzato milioni di persone”.
Mentre Simone – un ragazzo pacato e gentile – cerca di discutere civilmente riguardo a tali bestialità, rispondendo a suon di “beh”, “mah” e “non è proprio così”, io mi inoculo un sedativo per cavalli, prima di compiere qualche gesto insano.
(Chi l’avrebbe mai pensato nel 2003 che i casi umani attaccapezze che allora incontravi in metro, poi li avresti trovati a frotte sui social, fino a diventare parte del panorama).
Arrivati a Termini, una marea umana (tutta color arcobaleno) ci impedisce quasi di uscire dal treno. Vanno tutti nella direzione opposta alla nostra e noi ci sentiamo un po’ dei pirla (ma passa in fretta); guizziamo come salmoni controcorrente verso l’esterno e andiamo su viale Cavour, aspettandoci di incappare in un corteo sterminato, una specie di Carnevale di Rio incrociato geneticamente con una protesta sessantottina.
Ci sono invece un migliaio di piccoli cortei, ma del mega-raduno non troviamo traccia. Risolviamo i nostri dubbi filosofici e le nostre delusioni e ci pigliamo un caffé che ne abbiamo bisogno (ricordate? Ci eravamo alzati un po’ prestino), Dopodichè, un po’ più confortati, chiediamo lumi a un gruppo di veterani della CGIL di Varese, che attendono monolitici la testa del corteo da chissà quanto tempo. Non veniamo a conoscenza di nulla di nuovo, ma in compenso io e un signore (di cui non ricordo il nome) ci lanciamo in un elogio di Luigi Pintor e quindi in una pezza interminabile sull’urbanistica romana, più o meno dalla fondazione a oggi.
Gli altri mi fanno gentilmente cenno di tagliare e andarcene in cerca di ‘sto corteo. Prendiamo una direzione a caso e dopo un po’ raggiungiamo un raduno di Comunisti Italiani, dove, tra musiche d’altri tempi e piadine (pare di essere alla Festa dell’Unità di Reggio Emilia) intervengono Rizzo e non mi ricordo più chi (Diliberto?).
A un certo punto, parte un gruppo di persone con un bandierone gigantesco (un patchwork di pezzi di stoffa con ricamati o scritti dei nomi) e noi ci aggreghiamo entusiasti, sentendo alcune voci annunciare che la testa del corteo sta arrivando. Falso allarme.
Ci ritroviamo due o tre volte allo sbando, in mezzo a gruppetti eterogenei di manifestanti che vanno a zonzo, finché un vigile gentile non ferma tutti ridendo sotto i baffi e facendo notare che Piazza San Giovanni e da tutt’altra parte rispetto a dove stavamo andando. Ops!
Dopo due o tre falsi allarmi, si forma un nuovo corteo più grosso degli altri e noi ci uniamo, stufi di brancolare in mezzo alla strada: con noi ci sono vari Social Forum locali, uno stuolo di bambini scatenati che cantano a squarciagola, cittadini qualunque un po’ sperduti, una rappresentanza della CGIL di Napoli che fa un casino inverosimile e che, al passaggio di Pezzotta in incognito urla “Cornuto!”.
Ce la passiamo via talmente bene che arriviamo in Piazza San Giovanni senza accorgercene, anzi quasi convinti di essere al Circo Massimo. C’è un sacco di gente, ma riusciamo tranquillamente a guadagnarci quel posto (abbastanza) in prima fila che la Rai ci ha gentilmente negato (cornuti!). C’è già Lella Costa sul palco e in poco tempo inizia lo show, mentre la testa del corteo pare si stia avvicinando (la coda è probabilmente ancora alla Piramide).
Da qui in poi si fa difficile raccontare le cose in ordine cronologico e chi ha visto la diretta di LA7 ricorderà meglio di me, considerato che ero impegnato a cantare Bella Ciao e mangiare tutto quello che avevo a portata di mano. La mia razionalità (che mi ha permesso di redigere con puntualità le prime fasi della manifestazione) va a farsi fottere: mi metto addirittura a saltare e gridare e sono talmente fuori di cranio dall’emozione che arrivo a gridare “Vai, Scalfarone!”, quando Oscar Luigi si presenta sul palco. Il momento in cui viene fatta suonare la sirena di guerra lascia il segno: agghiacciante, fa venire la pelle d’oca.
Il pomeriggio procede con Lella Costa e compagnia bella sempre più emozionati, mentre si alternano sul palco testimonianze dalla Jugoslavia, dal Brasile, dal Kurdistan e perfino l’abbraccio di un refusnik israeliano con una ragazza palestinese. E poi ancora Scalfarone con Pietro Ingrao e i giornalisti dell’Usigrai imbavagliati per protestare contro la mancata diretta. Tra un evento e l’altro, le solite musiche.
Verso le sei di sera, purtroppo, tocca andarsene, con la sensazione di essermi perso qualcosa. Ci incolonniamo ordinatamente in una delle esperienze più angoscianti della mia vita: cercare di prendere la metropolitana con altre centinaia di persone. Tre ore di ammucchiata solo per scendere le scale. Un toccasana per la mia claustrofobia.
Alla fine della storia, già sulla via del ritorno rimane la sensazione di aver preso parte a un evento storico. (L’ha sostenuto anche Giulietto Chiesa, proprio lui che non spicca per ottimismo.) E la sensazione di “esserci stati” ed esserne fieri, di essere contento di aver visto coi miei occhi quanti eravamo e chi eravamo. Non sono facile agli entusiasmi ma se il 15 febbraio ha reso meno catastrofista pure Giulietto Chiesa, qualcosa di buono l’ha fatto, no?
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