Cercavo da un po’ questo libro, divenuto ormai introvabile e oggetto da collezione. L’ho trovato tramite una libreria bolognese e ora sono contento come un bambino.
“L’armata in barca” è l’ultimo libro di Antonio Meluschi, scritto nel 1976, poco prima di morire a pochi mesi di distanza dalla scomparsa della moglie, Renata Viganò.
Antonio Meluschi fu compagno di vita e di lotta di Renata Viganò, autrice dello splendido “L’Agnese va a morire”. Anche Meluschi fu combattente partigiano e anche il suo “L’armata in barca” ha come scenario la Resistenza nelle terre ferraresi e in particolare nelle valli, i grandi specchi d’acqua dell’area del Delta del Po, un po’ acqua di fiume e un po’ di mare, oggi bonificate, ad eccezione di ciò che resta a Comacchio e dintorni.
E in questa epopea di lotta partigiana le valli sono parte della storia con i loro labirinti di terra e acqua, le miriadi di uccelli che le popolano giorno e notte, gli insediamenti umani assediati dalle acque. E con la nebbia.
Fa pensare a quel dato un po’ mitico sugli Inuit dell’Artico e le loro decine di modi di descrivere la neve. Meluschi dispensa altrettanta ricchezza per dare mille forme e mille essenze vitali alla nebbia, che cali dal cielo o evapori dal terreno, che assuma la forma di nubi sfilacciate o di un umido muro impenetrabile, che cambi colore dal grigio al giallo al bianco fino ad un nero denso come l’inchiostro. Che sia alleata o nemica.
I partigiani di Meluschi agiscono avvolti in questa nebbia che li avvolge come una cortina, li confonde, ma anche li protegge, li accoglie in una sorta di bolla sospesa nel tempo e nello spazio. Un mondo a parte, rispetto a quello là fuori. Quando ne escono, per attaccare le squadre fasciste, i tupìn, i nazisti, è come se emergessero davvero da un altro mondo.
È la storia di un uomo arrivato nel ferrarese per organizzare la resistenza armata, ma presto il racconto si spezzetta in tanti racconti, che dei partigiani restituiscono l’eroismo, ma anche il pragmatismo e l’umanità, compresa quella meno nobile.
Senza mai, però, mettere in discussione che quella lotta fosse dalla parte giusta della Storia e che quella lotta sia stata la forza motrice per la costruzione dell’Italia democratica.
Per contro Meluschi fa un racconto ben poco edificante delle gesta degli Alleati, i “liberatori”, autori di infinite stragi di civili con i bombardamenti e le mitragliate indiscriminate, oltre che razziatori indiscriminati.
In fondo questi disincanto non è che la schietta consapevolezza di chi quella guerra l’ha vissuta sulla pelle e ne ha vista tutta la brutalità. La consapevolezza di chi in guerra ha combattuto, ma per necessità, sapendo – come scrive Meluschi nel finale – che a guerra finita ci sarebbero stati da rifare case, strade e città, ma soprattutto “bisognava rifare di nuovo gli uomini”.