Se l’arma dell’immaginazione potesse fermare anche solo una bomba

Indescrivibile. Inimmaginabile. Indicibile.

Nelle prime righe dell’articolo di copertina dell’ultimo numero di Internazionale saltano immediatamente all’occhio questi tre aggettivi. Li usa in sequenza una persona fuggita dalla città di Al Fashir, in Sudan, durante il massacro selvaggio compiuto dalle Forze di Supporto Rapido nelle scorse settimane.

La guerra in Sudan è madre di molti orrori come ogni guerra, che sia condotta con i machete e con le più raffinate armi tecnologiche. E di fronte all’enormità di certi orrori muore non solo la forza di descrivere, ma anche quella di immaginare.

A maggior ragione mi fa pensare che esista un valore etico non solo del dire, del denunciare, del raccontare – come fa il bravo giornalista – ma anche del fare immaginare con ogni strumento narrativo possibile. Che sia vitale fare abbeverare l’immaginazione ovunque esistano storie capaci di farci comprendere che gli “altri” sono esseri umani come noi, che come noi non meritano di vivere gli orrori di qualsiasi guerra.

Il massacro di Al Fashir è possibile grazie ad una quantità di armi, prodotte e vendute da molti paesi, anche qui in Europa. È del tutto evidente che chi le produce e le vende lo fa con la spietata spensieratezza di chi non è minimamente capace di immaginare le sofferenze che causeranno.

Probabilmente serve ben altro per fermare una guerra.

Ma la catena produttiva che crea, trasporta, carica e usa le armi in fondo è fatta di tantissime persone più o meno consapevoli. Sarebbe già bello che un atto di immaginazione di una sola di loro riuscisse a incepparne per un momento un ingranaggio. A fermare anche una sola bomba dal cadere su una casa, un drone dal massacrare un poveretto, una pallottola dall’arrivare a destinazione.

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