“Mi si è presentato così, per la prima volta, attraverso quattro carogne di cavalli, un mucchio di macerie, un cadavere stroncato, un fetore di carni in disfacimento, mi si è presentato così, d’improvviso, il vero volto della guerra”.
Sono parole di un tenente della Brigata Sassari, scritte dal fronte della Grande Guerra.
Il volto della guerra è sempre quello, con buona pace della propaganda sulla bellezza e pulizia delle guerre tecnologiche, chirurgiche o umanitarie, che è la stessa fuffa militarista dei Futuristi di un secolo fa. Vale quindi la pena rispolverare – in questi tempi cupi – proprio un libro di un secolo fa: “Guerra alla guerra” dell’anarchico tedesco Ernst Friedrich, ripubblicato in Italia diversi anni fa da Mondadori con una significativa prefazione del chirurgo Gino Strada, fondatore di Emergency.
Le parole della guerra
Il bagno di sangue della Prima Guerra Mondiale, dieci milioni di persone annientate con la potenza delle nuove armi di sterminio di massa, fu solo il primo capitolo di un’epoca di massacri sul territorio europeo. Già alla fine di essa si intuiva che, se non si fosse posta fine all’odio e alla prepotenza, presto un altro conflitto sarebbe scoppiato e sarebbe stato ancora più duro.
Eppure la retorica dei governanti continuava a preparare nuovi massacri, inneggiando alla gloria e alla patria. Come scrive Andreas Latzko (Uomini in guerra): “Fronte… Nemico… Morte gloriosa… Vittoria… Con la lingua infuocata, con gli occhi sfavillanti, quei molossi, quelle parole maledette, corrono per il mondo. Ecco milioni di uomini sani con tutti i vaccini in regola: le parole li mordono, li assillano, li spingono gli uni sugli altri. Fanno sì che si accatastino cantando nei treni. Sì che si spappolino, si infilzino, si fucilino, diano la propria carne, le proprie ossa per comporre la pasta sanguinosa con la quale si farà il dolce in cui i furbastri morderanno felici con tutti i denti…”
In piena concordia con la visione idilliaca della guerra fornita dai potenti, anche tra gli artisti c’era chi ne elogiava la grandezza. Ad esempio Filippo Tommaso Marinetti con il suo manifesto per la guerra coloniale d’Etiopia, su La Stampa di Torino (“La guerra è bella”) fino al noto Manifesto del Futurismo, pubblicato su Le Figaro nel 20 Febbraio 1909 (“Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”).
Per chi, con lungimiranza e realismo, intendeva fare tutto il possibile per impedire che scoppiasse una nuova guerra, era necessario innanzitutto svelare la falsità della retorica militarista, mostrando il vero volto della guerra a chi, lontano dal fronte, aveva conosciuto la guerra solo attraverso un’informazione addomesticata dalla censura militare: se la realtà che i potenti ostentavano erano i “campi d’onore”, la vittoria gloriosa contro il nemico e persino la bella e nobile morte in battaglia, bisognava far vedere la brutale realtà di chi affondava nel fango delle trincee, di chi era rimasto mutilato e sfigurato da proiettili e granate, dei mucchi di cadaveri sepolti in fosse comuni o abbandonati in brandelli sul terreno.
Quale strumento meglio dell’immagine fotografica avrebbe potuto far vedere la realtà del massacro di massa a chi non ne avesse avuto esperienza?
Mostrare il vero volto della guerra
E’ con questi obiettivi in mente – confutare le menzogne dei dominanti, mostrare in modo inoppugnabile le atrocità della guerra, incoraggiare alla pace e alla comprensione reciproca – che l’anarchico tedesco Ernst Friedrich pubblica “Guerra alla Guerra“, libro quasi interamente fotografico, in cui denuncia gli orrori della Grande Guerra ed esorta l’intera umanità ad indignarsi e rifiutare una volta per tutte di appoggiare il massacro di altri esseri umani.
Alle falsità dei potenti Friedrich oppone la “verità oggettiva” della fotografia, mettendo assieme una raccolta di quegli orrori indescrivibili che qui prendono forma grazie alla macchina fotografica.
Friedrich vuole che la gente veda che cos’è la guerra: “Il poeta borghese l’ha glorificata con versi turgidi, mentre lo scrittore del proletariato ha sputato parole gonfie di rabbia contro il genocidio. Ma non basterebbero le infinite sfumature lessicali di tutte le lingue a descrivere accuratamente questo massacro, né ora né mai. (…) Le immagini fotografiche di questo volume, (…) sono state catturate dall’occhio inesorabile e incorruttibile dell’obiettivo fotografico, e mostrano trincee e fosse comuni, smascherano le «bugie militari», i cosiddetti «campi d’onore» e altri «idilli» della «Grande Epoca». E non c’è nessuno al mondo che possa dubitare della veridicità di queste fotografie e sostenere che non riproducono fedelmente la realtà”.
La diffusione del libro non impedì lo scoppio, quindici anni dopo, di una nuova e ancor più sanguinosa guerra mondiale: eppure, se con il senno di poi si può ritenere eccessiva la convinzione di Friedrich nel potere persuasivo della fotografia, vale la pena, ancora oggi, di riflettere su “Guerra alla Guerra”, un’opera unica e appassionata, in cui la Fotografia si spoglia di ogni fine artistico e si adopera unicamente come mezzo per una causa civile.
Chi è Ernst Friedrich
Friedrich nasce il 25 Febbraio 1894 a Breslau, in Germania, tredicesimo nato di una famiglia piccolo borghese (la madre lavandaia, il padre, nelle parole di Friedrich stesso, “servo fedele di una banca”). Diventa prima apprendista stampatore, poi operaio, infine attore al Königlich Preussisches Hoftheater di Potsdam, tre carriere cruciali per la sua militanza civile: la vita in fabbrica gli permise di toccare con mano le condizioni di vita del proletariato operaio, l’apprendistato in una stamperia gli fornì le competenze grazie a cui realizzò i propri volumi anti-militaristi “Asilo Proletario” e “Guerra alla Guerra” e, infine, la carriera di attore ne formò le doti di oratore a sostegno della causa anti-militarista. Per tutta l’adolescenza Friedrich partecipa ai movimenti operai giovanili e a diciassette anni si unisce al Partito Social Democratico Tedesco (SPD).
Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale rifiuta di prestare servizio militare e viene per questo posto in osservazione in manicomio, da cui verrà in seguito rilasciato. Nel 1916 partecipa alle assemblee illegali della gioventù anti-militarista e rivoluzionaria e l’anno successivo finisce in prigione per un atto di sabotaggio. Viene liberato nel 1918 dai rivoluzionari del movimento Spartakus e partecipa assieme a Rosa Luxembourg e Karl Liebknecht alla Rivoluzione degli anni successivi alla resa della Germania. Quando il governo tedesco sopprime la rivolta, Friedrich si trasferisce a Berlino, dove continua la militanza nella Freie Sozialistischen Jugen (Gioventù Socialista Libera), un movimento indipendente, di stampo socialista anarchico e radicalmente pacifista, per cui Friedrich cura anche il giornale Freie Jugend.
Per tutti gli anni Venti organizza numerose mostre anti-militariste, in cui raccoglie opere di Otto Dix, George Grosz, Marc Chagall, Käthe Kollwitz. Nel 1921 pubblica il suo primo libro, un manuale di pedagogia pacifista intitolato “Proletarischer Kindergarten” (Asilo Proletario), il cui intento è di “educare i bambini alla solidarietà e all’amore reciproco”, volontà che appare marcata anche nelle prime pagine di “Krieg dem Kriege!“.
“Guerra alla Guerra” viene pubblicato nel 1924 in numerose edizioni plurilingue, caratteristica che gli garantisce presto un buon successo internazionale e che esprime l’utopia di poter raggiungere gli “uomini di tutti i paesi”. Dopo la pubblicazione, Friedrich utilizza i materiali raccolti per dare vita al primo Internationales Anti-Kriegs Museum (Museo Internazionale contro la Guerra), “il primo museo politico dell’epoca moderna”, con l’intento di continuare a trasmettere alle nuove generazioni l’orrore della guerra, affinché non ripetessero gli errori dei loro predecessori.
Così scrive in un testo del 1935: “La Germania è una repubblica, penso. La Germania vuole la pace, penso. Dovrebbe esserci un Museo della Pace in una repubblica pacifica, penso. Ma se la repubblica pacifista non ha abbastanza denaro per una simile opera di pace (essendo una nave da guerra più importante e più costosa), mi venne la folle idea di aprire un Museo contro la Guerra: al centro della Germania, nel cuore della Prussia, nel centro di Berlino (a cinque minuti dal comando centrale di polizia)”.
Nel frattempo, Friedrich continua a pubblicare libri, giornali e opuscoli contro la guerra, trovandosi ben presto al centro degli attacchi da parte di persone che lo denunciavano per diffamazione e di ufficiali di Stato che lo accusavano di tradimento. È proprio per “alto tradimento” che Friedrich viene imprigionato una seconda volta nel 1930, avendo distribuito materiale antimilitarista in cui si rivelavano documenti segreti dell’esercito e della polizia. L’avvento del Nazismo peggiora nuovamente la situazione: la notte in cui il Reichstag viene dato alle fiamme, i Nazisti irrompono all’interno dell’Anti-Kriegs Museum e lo devastano. Poco tempo dopo, Friedrich è di nuovo messo in carcere e il suo museo completamente sfasciato e trasformato (ironia del destino) in una camera di tortura delle truppe naziste. Dopo il rilascio nel 1933 per motivi di salute, emigra in Belgio e apre a Bruxelles un nuovo Anti-Kriegs Museum, che subisce la sorte del precedente quando le truppe tedesche invadono il paese.
Tornato in patria dopo la guerra, riprende a raccogliere fondi per la ricostruzione del Museo a Berlino, ma riceve il rifiuto del sindaco della capitale, Ernst Reuter.
Emigra dunque in Francia, a Parigi. Qui, con i soldi ricevuti dal governo tedesco come risarcimento per le vessazioni subite sotto il regime, compra prima una nave, poi un’isola a nord della città (Ile de la Paix), dove crea una casa d’incontro per ragazzi e lavora attivamente per il ristabilimento dell’amicizia tra Francesi e Tedeschi.
Purtroppo il suo progetto più ambito – un nuovo Anti-Kriegs-Museum a Berlino – vedrà la luce solamente nel 1982, quindici anni dopo la sua morte, per volontà del figlio Tommy Spree.
Fotografia come terapia d’urto
“Guerra alla guerra” si apre con immagini di soldatini, cannoni, modellini di campi di battaglia e altri giocattoli: il consenso alla guerra e, ancora peggio, la passione per la guerra si costruiscono infatti fin dalla prima infanzia. “Sono in molti a non accorgersi che la guerra si comincia a preparare in famiglia – scrive Friedrich – ed è questa la causa di tutti i mali, il vero inizio della guerra. (…) Ricordatevi che l’elmetto di carta un giorno diventerà d’acciaio, e proteggerà il capo di un assassino!”
La guerra, per l’autore, non è prodotto di forze irrazionali, ma si sviluppa in una cultura dell’odio e della violenza che manipola gli individui fin da bambini.
Artefici della manipolazione sono i dominanti: “Ogni occasione in cui il capitale internazionale si sente minacciato da un potenziale concorrente, ogni volta che i baroni delle fornaci e i padroni delle fabbriche bisticciano, non fanno che incrociare le spade e urlare: «La patria è in pericolo!» (Dove per patria si intende il portafogli!) E, stranamente, in tutto il mondo gli schiavi del lavoro abbandonano gli attrezzi per correre ad imbracciare le armi. Corrono a difendere i beni e la vita dei loro padroni con il proprio sangue. Ma perché dico «stranamente»? (…) il capitale non detiene soltanto il potere economico, ma domina e sottomette il proletariato anche intellettualmente”.
A Friedrich non basta esibire la mostruosità della guerra e la sofferenza delle vittime: per indignare le coscienze dei suoi lettori è necessario additare i responsabili delle efferatezze che scorrono sotto agli occhi.
Le immagini sono via via sempre più forti. Il viaggio in cui Friedrich conduce il lettore è una discesa all’inferno, ma sembra pianificato per impedire ad ogni costo di abituarsi all’orrore, che viene dosato di foto in foto e si accumula fino a divenire insostenibile. La sezione dedicata ai volti sfigurati e grotteschi dei reduci costituisce l’acme del percorso compiuto. Subito dopo si giunge alla parte conclusiva dell’opera, pagine e pagine che mostrano tombe di soldati e generali, file su file di lapidi e croci. Qui cessa il frastuono delle pagine precedenti, lasciando spazio solo al silenzio dei cimiteri: alla fine della guerra i potenti riservano ai sudditi l’ultima beffa, quella della morte ingloriosa e anonima che spetta ai “servi del capitale”. Se per buona parte del libro si ha avuta l’impressione di essere precipitati dentro al bagno di sangue e acciaio, paralizzati e nauseati dall’orrore, qui l’individuo è finalmente lasciato libero di tornare alla propria realtà e di riflettere sull’opportunità di agire per porre fine alla guerra.
Il vero volto della guerra
“Guerra alla guerra” mostra la guerra per com’è, “un caso gigantesco di suicidio collettivo” per citare Roberto Guiducci, “il suicidio dell’Europa civile”, secondo Papa Benedetto XV.
Ma è anche un contesto in cui appaiono nette le disparità sociali, ad esempio nel diverso trattamento riservato a soldati e generali, i primi mandati al massacro e i secondi a fare la bella vita nelle retrovie. Disparità che rimangono anche dopo la guerra – con i soldati semplici che tornano mutilati, sfregiati e poveri – e perfino nella morte, con i graduati sepolti con tutti gli onori in eleganti tombe, mentre la truppa merita al massimo una croce di legno, se non una sordida fossa comune.
Friedrich vuole narrare la storia da un altro punto di vista, quello dei dominati, delle vittime. Doppiamente vittime, in questo caso, perché invisibili, volontariamente occultate dalla macchina della propaganda che non può permettersi di mostrare il vero volto della guerra. Mostrarle è un atto di giustizia e di verità, il primo gesto necessario per demolire la retorica ipocrita dei dominanti e per restituire dignità a migliaia di individui gettati nell’oblio, nulla più che effetti collaterali per gli apologeti della guerra.
Nel guardare la carrellata finale di sopravvissuti ridotti a fenomeni da baraccone, con visi malamente ricostruiti dalla chirurgia plastica, fisionomie disumane, bocche deformi, orbite svuotate, nasi sfasciati, veniamo messi di fronte alla verità della guerra che è primario nascondere per poterla elogiare: la guerra uccide, ferisce, mutila e sfregia esseri umani come noi.
“Io, che vengo erroneamente definito «tedesco» invece che semplicemente «essere umano», faccio appello alle terre glaciali del Nord, all’Africa, all’America, all’Asia e all’Europa intera (…). Come piange e soffre, ride ed è felice un australiano, anche tu, fratello, eschimese, africano, o cinese che tu sia, e anch’io – tutti piangiamo e soffriamo allo stesso modo, tutti ridiamo di gioia e siamo felici. Poiché tutti gli esseri umani gioiscono e soffrono allo stesso modo, combattiamo tutti insieme contro la guerra, nemico mostruoso. Protestiamo insieme e uniamoci piangendo contro questo maledetto massacro, di cui tutti siamo egualmente colpevoli. Ma dobbiamo allo stesso tempo sperare in un’alba di pace e libertà: viva la patria di tutte le patrie, la patria dell’umanità!”.
Agire contro la guerra
Come opporsi alla guerra? Per Friedrich il primo atto è liberarsi della cultura dominante: “Rifiutate di prestare il servizio militare! Educate i vostri figli a disobbedire, a rifiutare a loro volta di prestare il servizio militare e di andare in guerra! (…) Il vero eroismo non consiste nell’uccidere, ma nel rifiutare di uccidere. Meglio affollare la carceri, gli istituti di pena, e i manicomi di tutto il mondo piuttosto che uccidere e morire per il capitale! (…) La nostra volontà è più forte della violenza, della baionetta e del fucile! Ripetete queste parole: «Io mi rifiuto!» Mettetele in pratica, e in futuro la guerra sarà impossibile. Tutto il capitale del mondo, i re e i presidenti non possono nulla contro tutti i popoli che insieme gridano: NOI CI RIFIUTIAMO! E voi, donne! Se i vostri uomini sono troppo deboli, voi ce la farete! Dimostrate che l’affetto e l’amore per il vostro compagno sono più forti di ogni chiamata alle armi! Non lasciate che i vostri uomini vadano al fronte! Non decorate i fucili con i fiori! Attaccatevi al collo dei vostri mariti, e non lasciateli partire, nemmeno quando arriva la cartolina di precetto! Divellete i binari, gettatevi davanti alle locomotive! Dovete riuscirci voi, donne, se i vostri uomini sono troppo deboli!”
Guerra alla Guerra vuole essere dunque il manifesto di un movimento di protesta popolare che condanni la guerra dei potenti, degli oppressori e, allo stesso tempo, insegni la pace e l’amore. È un libro che chiede di essere letto e passato di mano in mano perché le persone si sottraggano alle menzogne e agli infidi inviti della propaganda guerrafondaia.
Il messaggio che lancia è rivoluzionario e lo dimostra il fatto che, appena pubblicato, subì la condanna del governo e delle associazioni patriottiche, furono intentate cause legali contro l’esposizione delle fotografie e in alcune città la polizia fece irruzione nelle librerie che lo vendevano.
Tuttavia, in soli sei anni, Guerra alla Guerra aveva esaurito dieci edizioni solamente i Germania, accolto con entusiasmo da un gran numero di scrittori, artisti, intellettuali e associazioni pacifiste. Già due anni dopo la sua pubblicazione, il critico Kurt Tucholsky scriveva su Die Welthbune: “il libro non dovrebbe essere mostrato solamente ai nostri amici che sono già pacifisti (…). Dovremmo invece mostrarlo ai nostri oppositori, e dovremmo distribuirlo alle scuole, alle organizzazioni, durante incontri pubblici e nei cafè e a tutti quelli che non vogliono sapere nulla di questi orrori. E dovremmo anche mostrarlo senza esitazione alle donne – anzi, specialmente alle donne”.
Friedrich rimane un esempio unico di dedizione e passione per la causa pacifista e il suo libro un manifesto le cui conclusioni appaiono oggi altrettanto valide: in questi decenni di “guerra infinita”, mentre si riprendono a scavare trincee in Europa e radere al suolo intere città con i bombardamenti, il messaggio di Friedrich appare non solo di enorme attualità, ma di altrettanto enorme urgenza.
Lascia un commento