C’è tutto un bel dibattito in corso sui libri, su quanto si legge, su quanto si pubblica in Italia.
È molto interessante, è un tema che mi ha sempre intrigato e mi piacerebbe dire qualcosa (avevo anche iniziato a scriverci una roba per questo blog), ma ogni giorno ho sotto gli occhi storie come questa che vedete in copertina, con una mamma sporca e lacera che sostiene un figlio agonizzante, che compongono un ben cupo ritratto dell’umanità.
E sapere che di orrori come questo ce ne sono molti altri (in Darfur la guerra ha portato una nuova carestia, ma chi ne parla?), non è ovviamente consolatorio.
Non lo è perché di questo orrore si parla tutti i giorni anche sui quotidiani mainstream. E nonostante la quantità di informazioni da far torcere lo stomaco, nessuno fa nulla. Anzi è un abominio sostenuto dalla nostra diplomazia, dai nostri soldi e dalle nostre armi.
La cosa ovviamente non è sorprendente: basta guardare le cosiddette politiche europee per la gestione dei migranti (lager, armi, soldi ai dittatori, attacchi alle ONG) per tracciare un ritratto della nostra bella società che non è migliore di quella di certi mostri che lasciano morire di fame bambini o li maciullano con le bombe.
Non è un bel ritratto dell’umanità, quello che uno si figura in questo momento.
E quindi è bello il dibattito su quanti libri si pubblicano in Italia, ma io ultimamente mi chiedo se tutti questi libri ha senso scriverli e perfino se ha senso leggerli.
Leggo (e scrivo) perché non posso farne a meno, per carità. Però mi chiedo se non siamo semplicemente dei consumatori di storie e magari ci illudiamo di essere più intelligenti di quelli che consumano con lo stesso fervore panini da Mc Donald’s.
Ho sempre pensato che leggere storie servisse a coltivare l’empatia, oltre che l’intelletto e la curiosità. E mi pare sempre più evidente che dell’empatia in questa epoca non sappiamo letteralmente cosa farcene. Forse ormai neanche dell’intelletto.
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