Qualche giorno fa a Rovigo è morto un ragazzo di vent’anni. Ucciso in piazza, nel mezzo di una rissa, con modalità tutte da capire.
In una società normale, forse, dovremmo farci bastare questo: è morto un ragazzo di vent’anni. Capiremo poi chi era, cosa ci faceva lì, com’è accaduto. In una società normale, la morte di un ragazzo dovrebbe ispirarci un minimo di pietà, invece di mille post sgangherati sui social. In testa quello della sindaca di Rovigo, dispiace davvero scriverlo: ma tra le tante cose che poteva scrivere, e tra le tante cose che ha scritto, alla fine si è sentita di mettere nero su bianco parole tremende: “Mi dispiace per la morte di un ragazzo. Ma chi esce per fare guerriglia sceglie la guerra. E in guerra si può anche morire”. Insomma, se l’è cercata.
Poteva prendersi il tempo di capire, attendere che i fatti fossero più chiari, e nel frattempo fare un esercizio di umanità: rassicurare (che, sì, in città c’è paura), difendere una visione positiva del futuro. Poteva scrivere “Mi dispiace per la morte di un ragazzo” e basta. Senza sottintendere altro.
Ma evidentemente non c’era tempo. Bisognava cavalcare l’onda, stare sui social, dire qualcosa, fare a gara a mostrare i denti, anche a costo di mancare di rispetto alla morte di un ragazzo, che comunque aveva genitori, una famiglia, amiche e amici. Io spero almeno che – passata la rabbia iniziale, mentre dalle cronache locali emerge un ritratto diverso della vittima – all’autrice di quelle parole prenda la voglia di spenderne altre, più pietose.
Ma tanto sono io che credo alle favole: i social sono zeppi di post anche più nauseanti, dove di rispetto e pietà non si trova alcuna traccia, nemmeno quel “mi dispiace per la morte di un ragazzo”. Post che non dicono nulla, che non risolveranno nulla, che non ci faranno certo sentire più sicuri. Anzi, che ci faranno sentire solo più impauriti e rabbiosi e spietati verso chiunque abbia un’etichetta diversa addosso.
Del resto non c’è pietà per il ventenne straniero che viene ucciso per strada, come non ce n’è da un pezzo per chi affoga in mare, come non ce n’è per chi muore in carcere o per l’innocente che muore in una delle nostre guerre. Non ce n’è per il povero, ma a dire il vero neanche più per il ciclista investito o l’escursionista che cade in montagna, che se la sono andata a cercata, è colpa loro, potevano starsene a casa.
E’ che, in questo incessante prendere a sassate la pietà in tutte le sue manifestazioni, ci dimentichiamo che è proprio uccidendo la pietà che si prepara il terreno alle più angoscianti tragedie.
Ventiquattro anni fa, in questi giorni, in una piazza a Genova veniva ucciso un ragazzo di vent’anni, Carlo Giuliani. Gli sparò in testa un altro ragazzo di vent’anni durante gli scontri al G8. Anche allora la ridda dei se l’era cercata, è colpa sua, era andato a “fare la guerriglia”. Altrettante parole vuote e insensate e inutili e stupide e cattive, sparse da giornali e telegiornali, che almeno all’epoca non trovavano un’eco nell’immondezzaio social.
La dice lunga sulla traiettoria che abbiamo preso come società in un paio di decenni. Bastava, allora come oggi, esprimere un briciolo di pietà per la morte di un ragazzo di vent’anni. Per i suoi genitori, la sua famiglia, i suoi amici, i suoi affetti. In una società normale, di persone normali, ci sentiremmo di non avere altro da dire che questo.
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