“Si possono bruciare bambini senza che la notte si muova”, scriveva Robert Antelme ne “La specie umana”.
I bambini in questo caso bruciavano nei campi di sterminio nazisti. Bruciavano, come bruciavano i loro genitori, perché qualcuno aveva deciso che meritavano di bruciare semplicemente per ciò che erano. E la calma, l’immobilità che circondavano quell’orrore facevano paura quanto l’orrore stesso.
Si potrebbe dire lo stesso oggi, mentre si perde il conto dei bambini ammazzati, bruciati, fatti a pezzi, mutilati, resi orfani e infine, in questo momento, ridotti deliberatamente alla fame da Israele a Gaza per punire loro, le loro famiglie e migliaia di innocenti per crimini che non hanno commesso.
La notte calma e immobile è la stessa che sovrastava i lager in Europa. Circonda in uguale modo non solo gli orrori invisibili ai media, ma perfino l’orrore di Gaza trasmesso in diretta da mesi, con la sua escalation di crimini di guerra noti e documentati, in un contesto ormai conclamato di pulizia etnica. La circonda nonostante una quantità di informazioni circolino sui media fin dagli albori della guerra. Nonostante tutti abbiamo potuto ascoltare la voce della piccola Hind Rajab, massacrata con la famiglia da soldati israeliani in diretta telefonica. Nonostante il premio Pulitzer alla foto di una famiglia massacrata, il World Press Photo all’immagine di un bambino rimasto senza braccia, il premio Oscar a “No other land”. Nonostante gli stessi soldati israeliani inondino da tempo i social di video in cui esibiscono i propri crimini contro l’umanità con la stessa fierezza con cui i soldati nelle spedizioni coloniali si fotografavano con teste mozzate come trofei.
Hanno ancora un valore le immagini, le storie, le notizie, nel cui flusso soffocante siamo immersi? O sono solo un fiume di pornografia in cui i gabbiani sul tetto della Sistina, il migrante affogato in mare, la villetta a schiera del fattaccio di cronaca, le esplosioni di missili tra le tende di un campo profughi, le panoramiche delle città ucraine in cenere e centomila altre cose sono frullate tutte insieme, contenuti da consumare in velocità come le patatine in sacchetto?
Vent’anni fa, Mario Perniola parlava di comunicazione come l’esatto opposto dell’informazione, nemica della conoscenza e in sostanza anche della democrazia. Più o meno nello stesso periodo Neil Postman ci parlava di infotainment in “Divertirsi da morire”. E non avevano ancora visto un feed di Facebook.
Oggi l’overdose di comunicazione che ci assale sembra solo un gran rumore di fondo, che distrae e rincoglionisce come il brusio di traffico e musica nei dehors dei bar in città.
Ma mi chiedo poi se il problema siano le notizie, le immagini, la qualità scadente dell’informazione. Se non sia invece lo sconfinato cinismo o la sconfinata ipocrisia di chi ha il potere (compresa quell’Europa che oggi celebriamo) e lo usa per rendere un inferno la vita di altri esseri umani, intrallazzando con dittatori, milizie, produttori di armi.
E infine, mi chiedo se il problema non siamo un po’ tutti noi e la nostra indifferenza, scandalosa non meno di quella di cui parlava Antelme. Se vale la pena giustificarci, accusando l’overdose di comunicazione di averci annichilito, come gli inebetiti cittadini de “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley.
O se è più salutare riconoscere che siamo moralmente delle merde, intendo come società, che consideriamo il dolore degli altri nulla più che un prodotto da consumare, giusto un pretesto per combattere la noia ed emozionarci cinque minuti, come con le cazzate dei reality show in tv e quelle dei reel su Instagram.
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