Intrecci di fili e destini Reggio Emilia, al festival di Emergency

Quando mio nonno è arrivato a Reggio Emilia dopo che una bomba gli aveva distrutto gli occhi, era un sedicenne di un paesino di campagna vittima di una guerra appena finita.

La bomba era una bomba a mano. Tedesca, inglese, americana? Non ha molta importanza saperlo.

Nell’estate in cui perse la vista, mio nonno era un ragazzino che riparava biciclette in una frazione di Portomaggiore, in provincia di Ferrara. Che futuro avrebbe avuto? Chissà. Nella parentesi della sua vita all’istituto per ciechi di Reggio Emilia, gli insegnarono non solo a leggere il braille e a muoversi senza bisogno della vista, ma anche a ricostruirsi una vita e una professione.

Diventò fisioterapista, lavoro, che lo riportò a Ferrara, dove conobbe mia nonna in ospedale (lei aveva studiato da ostetrica), per poi condurlo anni dopo a Rovigo.

Ho spesso pensato che quella bomba ha cambiato radicalmente il destino di mio nonno e che senza di essa io non sarei qui qui a scriverne. Ma forse è più corretto dire che non sarei qui se, dopo la bomba, non ci fosse stato qualcuno che aveva un progetto per trasformare un ragazzino cieco in una persona capace di vivere una vita normale.

Lo scorso weekend sono stato a Reggio Emilia e la storia di mio nonno mi è tornata in mente, passando proprio davanti all’istituto per ciechi. Ero nella città emiliana per il festival di Emergency e mi è sembrato ancora di più di non essere giunto lì per caso. E non solo perché sono un pezzetto di Emergency da più di vent’anni.

C’era questa curiosa assonanza, di passeggiare per le stesse strade dove sicuramente si è mosso mio nonno, con in mente la sua storia di cura. E nel frattempo ascoltare voci e testimonianze di chi oggi cura vittime civili delle guerre.

Emergency, in fondo, fa da 30 anni una cosa simile a quella che ha cambiato il destino di mio nonno: salva vite e destini, restituisce futuro e speranza alle persone devastate dalla guerra, che nove volte su dieci sono civili innocenti. Ha iniziato ricucendo le vittime delle mine antiuomo e oggi naviga nel Mediterraneo per salvare e curare chi rischia la morte per raggiungere l’Europa.

Ho sempre in mente quella storia di Soran, quel ragazzino kurdo curato da Gino Strada dopo che una mina gli aveva strappato una gamba. Non doveva essere tanto più piccolo di mio nonno all’epoca della sua bomba. Oggi Soran è adulto, è un marito, padre e insegnante. Grazie a qualcuno che gli ha curato le ferite, insegnato a usare una protesi, offerto una nuova strada.

E’ un piccolo miracolo trasformare un ragazzino invalido (in qualsiasi paese del mondo) in una persona capace di costruire da sola il proprio futuro. E’ il miracolo di chi fa, anziché limitarsi a predicare, come fanno tanti.

Questo incrocio di fili e di vite a Reggio Emilia può sembrare una sorprendente coincidenza. Ma è semplicemente un segno tra tanti, un promemoria: ci rammenta che le nostre vite non riguardano solo noi, come le vite degli altri non riguardano solo loro, ma che tutte si intrecciano nel destino di una sola famiglia, quella umana, a cui spesso ci dimentichiamo di appartenere, nel bene e nel male.

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