Concludo qui un piccolo ciclo di articoli su Aeham Ahmad e in particolare sui suoi libri, abbozzati mentre preparavo la breve chiacchierata al festival “Opera Prima”. Dopo l’ultima opera, “Taxi Damasco“, sentivo il bisogno di riprendere alcuni pensieri nati dalla lettura de “Il pianista di Yarmouk” (edito sempre da La Nave di Teseo).
Perché questa recensione
A essere onesto, mi era sembrato inizialmente un po’ stucchevole tornare a scrivere di questo libro: il quarto articolo in un mese su Aeham Ahmad!
Poi ho letto questo bell’articolo di Leonardo Delfanti, un’intervista realizzata proprio a Rovigo: ci ho ritrovato pensieri e anche timori coltivati mentre preparavo quella conversazione al festival (e perfino mentre la conducevo).
Tra tutti, il timore più forte era quello di appiattire la persona Aeham sul “personaggio” dell’eroico pianista che suonava tra le macerie.
In questo senso – oltre a consigliare la lettura dell’articolo di cui sopra – l’autobiografia di Aeham Ahmad merita di essere letta per diverse ragioni e per una essenzialmente: allargare il nostro sguardo oltre la foto, il cliché, la superficie delle cose, l’eterno presente che soffoca la narrazione mainstream.
La musica è di tutti
Ho suonato per anni pianoforte e tastiere elettroniche, sempre maledicendomi per non avere scelto strumenti più leggeri e maneggevoli, come la chitarra.
Mai mi sarebbe venuto in mente che il pianoforte – quel cassone di legno già difficile da spostare di pochi centimetri – potesse essere portato in giro per diventare uno strumento da strada. Che sia venuto in mente a Aeham Ahmad non stupisce molto, leggendo il suo libro: si capisce fin dal racconto dell’ingresso alla scuola di musica, nella quale riesce ad entrare pur proveniendo da una famiglia non ricca.
Il giovanissimo Aeham manifesta immediatamente una sorta di ostilità all’idea che la musica sia qualcosa per le élite. Lui coltiva invece la convinzione contraria, anche per quanto riguarda la possibilità di “fare musica”: “Alla scuola mi avevano insegnato che la musica era una cosa che incuteva profondo rispetto, che di fronte al genio eterno bisogna sentirsi piccoli”.
Aeham porta la musica in strada perché la sua musica è qualcosa da condividere. Con lui cantano e compongono poesie gli abitanti di Yarmouk. Lo fa perché è il suo carattere: è un tizio tremendamente cocciuto, ma soprattutto tremendamente generoso.
Con la stessa generosità con cui si inventa di friggere felafel di lenticchie agli affamati abitanti del quartiere, offre loro anche le note del suo pianoforte e del suo canto.
Del resto, è ciò che gli ha insegnato il padre cieco, musicista appassionato ed esperto, pronto a fare ogni sacrificio per consentirgli di suonare. Che la musica richiede disciplina e dedizione (memorabile nel libro l’episodio della partita di calcio), ma che non è preclusa a nessuno.
La musica salva l’anima
Può sembrare strano riuscire a fare musica mentre si è occupati a sopravvivere. Ma la verità è che il dolore può essere fonte di creatività o forse la creatività esiste anche per esprimere il dolore, se non per sopportarlo.
Mentre il quartiere di Yarmouk è assediato e preso per fame, Aeham compone musica, spesso assieme ad altri abitanti. Racconta che nella prima metà del 2014, un periodo drammatico, nascono centosessanta canzoni dai tasti del suo pianoforte.
Si interrompe solo quando una bambina viene uccisa da un cecchino mentre canta con lui. Il dolore a quel punto è troppo forte, al punto da non riuscire più a suonare.
Ma quando, molto tempo dopo, arriva in Germania come rifugiato e finalmente trova un pianoforte, ancora una volta la musica lo salva. “Ero assetato di musica”, scrive in questo passaggio del libro.
La musica può essere un rimedio alla sofferenza. Non solo a quella delle singole persone, ma delle comunità.
Un musicista siriano in Europa
Nell’articolo citato all’inizio, Aeham Ahmad si pone la questione del “senso” di essere un musicista. Un senso profondo, che non è quello di esibirsi, essere applauditi, avere successo.
Il suo senso profondo, in questo momento, è forse quello di creare dialoghi tra culture e popoli. Chissà. Di certo, la musica può essere non solo un diletto intellettuale, ma anche uno strumento di pace e giustizia. O semplicemente di conoscenza dell’altro.
Ecco, il pregio su tutti del libro “Il pianista di Yarmouk” è di aprirci le porte di una vita altrui. Quella di una delle tante persone che in Europa sono marchiate come “rifugiati”, “immigrati”, “richiedenti asilo” e che sono in realtà persone, ciascuna con la propria storia.
Una storia di sofferenza, anche insopportabile: “Perché non sei morto come gli altri?”, si chiede ad un certo punto l’autore ed è un tormento che conoscono i sopravvissuti alle tragedie. O semplicemente la storia di una vita, con la tragedia e le risate, la bellezza e il lutto, i sogni e i rimpianti e tutto quello che c’è in una vita, qui esasperato dalla guerra e dalla fuga dalla violenza.
Dico “una vita” e basta non per sminuire la tragedia di Aeham e del popolo siriano. Ricordarci della sofferenza degli altri è un dovere morale. Ma non dobbiamo imprigionare gli altri nella nostra narrazione di quella sofferenza. Soprattutto se, alla fine, rimaniamo immobili di fronte ad essa.
Forse da soli non possiamo fare molto. Possiamo, però, almeno metterci nei panni degli altri. Scoprire le loro vite per togliere loro di dosso un’etichetta. Immaginare quante vite avvengono parallelamente alla nostra e che magari un domani con la nostra si andranno ad intrecciare.
Se non lo stanno già facendo, senza che ce ne accorgiamo.
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