Come mai mi chiedono ancora de “Le mille verità”


Ora, io lo so, che una macchina del tempo uno dovrebbe usarla per fare cose tanto nobili, quanto insensate, tipo tentare di impedire tutto da solo qualcuna delle centomila tragedie della storia.

Ma credo, come insegna la fantascienza, che l’unico risultato sarebbe causare paradossi a non finire.

Il romanzo che aveva profetizzato la pandemia…

Se avessi una macchina del tempo probabilmente la cosa più sensata che potrei fare sarebbe tornare nel 2016 o 2017, quando stavo scrivendo “Le mille verità“. E suggerire al me stesso di allora di ambientare la storia in un futuro distopico, diciamo il 2020, in un periodo in cui tutti gli abitanti sono confinati in casa per il dilagare di un temibile coronavirus asiatico…

Ci sarebbe certamente da riscrivere da capo molte scene chiave ambientate al bar, ma l’assurdità del contesto in compenso sarebbe funzionale a tutta una serie di fatti chiave della trama e li renderebbe perfino più verosimili.

In ogni caso, a prescindere dalla qualità del plot, ciò che conta è che, pubblicato il mio divertente libercolo, poi dovrei solo aspettare il 2020 per vederlo rigurgitato sugli scaffali delle librerie temporaneamente tornate in auge, strillato come “Il romanzo che aveva profetizzato la pandemia” (altro che “La peste scarlatta” di London).

E io ascenderei dallo status di squattrinato imbrattacarte di provincia a quello di controverso scrittore visionario, almeno per diciassette o diciotto giorni, festivi inclusi, fino al subentrare della noia.

Ancora chiacchiere su “Le mille verità”

In attesa di realizzare questo ardito progetto, mi accontento del fatto che nel 2024 effettivamente verranno alla luce miliardi di cicale negli Stati Uniti, (è la prima volta dal 1803 che due generazioni di cicale completano in sincrono i loro cicli di sviluppo). L’avevo profetizzato nell’incipit de “I giorni delle cicale“.

Curiosamente, però, mentre la mia ristampa delle “Cicale” non è esattamente al centro di un tour mondiale, “Le mille verità” continua la sua vita editoriale. Nel senso che mi chiedono ancora di presentarlo in giro e vedremo se qualcuno di questi incontri si terrà veramente.

L’anno scorso è stato il pretesto da cui è nata la folle mostra a Ca’ Cornera con Cristina Sartorello. Mostra che potrebbe tornare esposta da qualche parte entro l’anno.

Di certo è stato letto dalla brava maestra di mia figlia (brava perché è brava, non perché legge i miei libri), che mi ha chiesto di entrare in classe per parlare con i bambini di cosa sono le fake news.

A scuola a parlare di giornalismo

Credo che “Le mille verità”, senza bisogno di essere profetico, attiri ancora l’attenzione perché parla di un tema evergreen: del fare informazione come un lavoro per idealisti.

Quando l’ho presentato l’ultima volta a Corbola mi è sembrato strano, non solo perché nel frattempo ho scritto altro, ma perché scriverlo è stato come chiudersi una porta alle spalle. Mi sembra strano ancora oggi, perché sono dieci anni che non faccio il giornalista di mestiere (cioé pagato per farlo e non per hobby nel tempo libero).

Questo è il periodo in cui si rinnova l’iscrizione all’Ordine e ogni anno mi chiedo: vale ancora la pena? La risposta è un sincero: boh. La mia tessera è da anni più un feticcio da collezione, che uno strumento di lavoro. Quest’anno il “boh” è diventata una richiesta di cancellazione all’Ordine dei Giornalisti, perché scrivere per hobby è un bellissimo passatempo, ma non è giornalismo. Vediamo se accadrà.

Però parlarne significa ancora oggi chiarire cosa intendo quando penso alla professione giornalistica. A scuola con i bambini abbiamo parlato di come informazione significhi soprattutto la possibilità di informarsi. E di come la circolazione delle informazioni possa aggregare una società (o disgregarla). Però in modo semplice, da bambini (l’esempio di informazione da cui siamo partiti – che li ha fatti molto ridere – è stato: mi sapere dire dov’è il bagno?).

Perché fare il giornalista

Mi hanno chiesto perché ho scelto questo mestiere anni fa e qui la risposta è venuta facile: perché mi piace scrivere, perché mi piace informarmi e perché mi piace spiegare cose complesse in modo che le capisca chiunque.

Ne ho dimenticato una quarta: perché credevo, con il mio lavoro, di fare qualcosa di buono per la mia comunità. In parte credo anche di averlo fatto.

Poi, capito che nel mio lavoro non si esprimeva (più?) tutto questo, mi è sembrato più sensato chiuderla lì e fare altro. E quando non mi è più bastato, ho di nuovo cambiato lavoro. Insomma, quelle quattro cose non le ho buttate, smettendo di fare il giornalista. Le ho semplicemente… portate in altri lavori non giornalistici.

Sono cose che mi stanno a cuore e difficilmente possono stare buone buone in un cassetto. Credo siano in fondo preziosi parametri per valutare se sto dedicando il mio tempo migliore a qualcosa che ne valga la pena.

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