La fine del mondo in venti giorni

Cominciò con il rumore di una goccia di pioggia tra le dune del Sahara occidentale. Un frastuono, ma non c’era nessuno a sentirlo. Poi, goccia dopo goccia, cominciò a piovere in tutto il mondo.

Il primo giorno, le previsioni del tempo davano brutto su tutta la penisola. Un pessimo inizio per la stagione turistica, iniziarono a protestare i balneari.

Il secondo giorno, l’intero continente fu coperto di nubi. La gente aprì l’ombrello e andò al lavoro, come ogni giorno.

Il terzo giorno, il traffico andò in tilt. Le fogne strariparono. Qualche comune chiese lo stato di calamità. Pochi si accorsero che pioveva un po’ dappertutto: in Europa, nel continente americano, sull’Africa, sull’intero continente asiatico. Qualcuno disse: presto calerà d’intensità. Iniziò a piover più forte.

Il quarto giorno, le opere dell’uomo cominciarono ad andare in pezzi. Allagamenti nelle campagne cinesi, decine di morti. Un atollo polinesiano colò a picco. Una frana in Honduras seppellì una bidonville. New Orleans tornò sott’acqua. Le solite tragedie nel palinsesto dei telegiornali.

Il quinto giorno, la pioggia cadde ancora più intensa. Piovve anche sui ghiacci polari. Uno scienziato norvegese si disse preoccupato: le calotte artiche si sarebbero potute sciogliere. I capi di governo del mondo civilizzato intimarono di mantenere la calma.

Il sesto giorno, una marea fangosa invase Basilea. Il Reno, gonfiato dalle piogge, era uscito dal suo letto: decine di morti, centinaia di dispersi. In India e in Bangladesh i morti negli allagamenti si contarono a migliaia, ma la notizia finì in coda ai tg. In Siria le forti precipitazioni bloccarono un’offensiva militare del governo nel nord del paese.

Il settimo giorno, i turisti fuggirono da Venezia, mentre piazza San Marco veniva inghiottita dalla laguna. Mezzo Egitto minacciato dall’ingrossarsi del Nilo. Le acque dell’Eufrate allagarono Baghdad. I fianchi delle montagne europee cominciarono a sgretolarsi sotto l’azione delle acque.

L’ottavo giorno, la maggior parte delle piccole isole del mondo era scomparsa e i continenti cominciarono ad accogliere gli sfollati. Londra, Parigi, New York, Istanbul erano ormai in balia delle acque.

Il nono giorno, si comprese che nessun continente era al sicuro. Scoppiarono le sommosse, come a catena, una dietro l’altra, mentre i governanti dei maggiori paesi industrializzati, riunitisi in concilio a Città del Capo, si dichiaravano impotenti.

Il decimo giorno, il governo e la famiglia reale inglese si rifugiarono a bordo di una corazzata della marina militare, scappando dal paese in preda al caos, verso destinazione ignota.

L’undicesimo giorno, mentre interi quartieri delle grandi città portuali venivano rasi al suolo da onde alte tre metri, il governo americano abbandonò Washington e prese il largo a bordo di tre imponenti portaerei cariche di viveri, acqua dolce, beni di lusso e trastulli per trascorrere il tempo piacevolmente.

Il dodicesimo giorno, anche i governanti europei seguirono l’esempio dei loro compari d’oltreoceano e affollarono le più grandi e capienti tra le loro navi, squagliandosela tra i flutti.

Il tredicesimo giorno, l’Indonesia non esisteva più. Esisteva solo il governo indonesiano, composto dalle cinquantaquattro eminenze imbarcate in tutta fretta su un transatlantico capace di portare tonnellate di viveri.

Il quattordicesimo giorno, almeno un miliardo di persone erano morte: le baraccopoli delle grandi città erano state completamente annientate. I benestanti, arroccati ai piani alti dei loro palazzi, guardarono le acque salire fino al quarto piano, ancora convinti che l’avrebbero sfangata in qualche modo.

Il quindicesimo giorno, il quindicesimo conte di Chester gettò un occhio dal terrazzo del suo attico in una Londra ormai sommersa e vide le acque ricoprire ogni cosa, fino all’orizzonte. Emergevano ancora, indifferenti, i palazzi di vetro della city. Guardò il cielo plumbeo e commentò: “E’ una giornata tremendamente noiosa”.

Il sedicesimo giorno, i quartieri popolari di Roma erano ormai ridotti ad un cumulo di macerie. In Vaticano, interrogandosi ancora sul perché Dio avesse voluto scatenare una punizione tanto terribile contro l’umanità, il Papa celebrò messa a bordo di una grande arca, su cui da tempo erano stati caricati i più preziosi paramenti sacri.

Il diciassettesimo giorno, un operaio olandese solitamente molto devoto bestemmiò il Signore per la prima volta in vita sua, mentre l’innalzarsi delle acque inghiottiva lentamente il sottotetto in cui aveva trovato rifugio con la sua famiglia.

Il diciottesimo giorno, a bordo di un elicottero militare che lo avrebbe condotto a bordo di una portaerei, il presidente russo osservò con distacco Mosca venire sommersa da un vortice liquido, come se qualcuno avesse tirato lo scarico del water.

Il diciannovesimo giorno, con buona pace della miriade di navi in fuga dalle città evacuate, non c’era più alcun continente su cui approdare.

Al ventesimo giorno di pioggia nessuna notizia di Dio. Un inserviente imbarcato su una gigantesca nave da crociera piena di ricconi, mentre passava lo spazzolone sul ponte guardò l’orizzonte monotono di quello che era ormai un oceano infinito e si disse tra sé: “E’ andata così”.

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