La frontiera sommersa, capitolo 3: Quando è cambiato tutto

“Giorgio, lei si ricorda di quando tutto questo ha iniziato a cambiare?”

Caterina fissava la monotonia di pozze d’acqua, piccoli canali, ciuffi di boscaglia, mentre tentava di ricostruire con i ricordi l’aspetto di quella pianura appena pochi decenni prima. Riusciva a sovrastare quella desolazione solo la fila ordinata dei tralicci dell’alta tensione, ormai privi dei loro cavi, che si perdeva all’orizzonte. Ma anche quelli erano malmessi, arrugginiti, molti ormai storti, altri già crollati.

Nessuna traccia di esseri umani. Non fosse stato per i giganteschi manufatti di metallo, per qualche casa divorata dai rovi o per i piloni di cemento di un cavalcavia ormai crollato, si sarebbe potuto pensare che quel territorio fosse sempre stato così: una frontiera incontaminata, dove la civiltà doveva ancora arrivare.

Giorgio fece spallucce. Non aveva voglia di parlare di come erano quelle terre un tempo. Gli sembrava una cosa da vecchi. E lui, per carità, vecchio lo era, come quasi tutti gli abitanti di ciò che restava del Polesine. Ma preferiva adattarsi semplicemente a ciò che era diventato il suo mondo, piuttosto che perdersi nel mito di un passato inevitabilmente sempre migliore del presente.

“Mio padre e mia madre dicevano che sarebbe successo – proseguì lei -. Lei credeva che si sarebbe potuto fare qualcosa per impedirlo. Lui invece era convinto che non sarebbe stato fatto nulla”.

Giorgio non fiatò.

“Sa cosa mi ha sempre colpito? – proseguì la donna – Che quelli della generazione di mio padre e di mia madre si sono presi a cuore la situazione, quando hanno iniziato a vedere il disastro all’orizzonte. Quelli della nostra generazione, invece, quando è arrivato si sono semplicemente adattati. Del resto cosa dovevamo fare? “.

Giorgio sospirò. Certo che si ricordava com’era cambiato tutto. Si ricordava anche com’era un tempo, quando lì si coltivavano campi e crescevano file di frutteti. Ma non era certo un idillio bucolico. Era anche il tempo dei rifiuti e dei veleni, dell’asfalto, dei centri commerciali e dei capannoni sparsi perfino nel più piccolo buco di paese e oggi sepolti dal fango e dalla vegetazione. Era un’epoca che non valeva comunque la pena rimpiangere.

“In futuro sarà anche peggio di così”, concluse ad alta voce, scrollando le spalle.

Caterina non capì.

“Intendo tutto questo – abbracciò con un gesto l’intera piana -. Anche i miei genitori mi avevano avvisato: il mare risalirà ancora. Tra dieci, venti anni qui sarà tutto sotto acqua. Tra cinquanta anni qui non ci sarà più niente, quei colli all’orizzonte saranno isole e di Rovigo e Adria non si ricorderà nessuno. Inutile affezionarsi a questa terra“.

E poi tacque di nuovo. In quella palude afosa il suo silenzio fu sovrastato dal ronzio degli insetti e dal gracidare di alcune rane. Caterina percepì nel silenzio dell’uomo stanchezza ed amarezza.

La barca passò accanto ad un immenso traliccio, morto schiantato nell’acqua scura, contorto come un antico albero. Era rimasto vittima di una delle tante tempeste estive, che negli anni avevano spazzato via relitti di costruzioni, pali, alberi. Livellata dalla paziente opera del mare e del vento, quella terra era destinata a rimanere un’infinita pianura, oggi di fango, domani di acqua. 

All’orizzonte iniziavano a intravedersi le misere case di Ariano, avvolte in una leggera foschia.

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