Scrivere è una necessità?

Alle volte passare del tempo a scrivere mi sembra un’idiozia. Sarà perché mi sembra che scriviamo tutti fin troppo. E non parlo degli ottantamila libri pubblicati l’anno scorso, che comunque sono troppi, ma della quantità di cose che pubblichiamo su Facebook, su Instagram, su LinkedIn, su Twitter e sugli altri mille canali che ci offrono l’irripetibile esperienza di esprimere opinioni, senza che nessuno ce le abbia chieste. 

Ma può essere che dietro questo sentimento ci sia anche il mio tarlo, la tendenza a cercare il senso delle cose e non riuscire ad accontentarmi della risposta, nemmeno quando mi sembra ovvia. Quindi a non trovare mai ovvia nemmeno la risposta alla domanda: perché scrivo?

Imbrattacarte fin da bambino

Sarà che saper scrivere è forse l’unica qualità che mi riconosco. Fin da bambino per me scrivere, cercare le parole e metterle in fila, era un esercizio gioioso. Ho iniziato a tenere il mio primo diario già alle elementari, ho scritto il mio primo racconto a dieci anni e pubblicato il mio primo articolo sul giornalino scolastico di quegli anni. Ho imbrattato e tuttora imbratto centinaia di pagine di quaderni e diari, ma ho anche riempito cestini e stipato caminetti di altrettante tonnellate di carta, zeppa di segni che non mi interessava conservare o addirittura volevo eliminare.

E proprio quei falò mi sembrano il segnale più luminoso che scrivere per me è sempre stato un atto importante, non scontato. Al punto da distruggere la parola scritta, quando mi sembrava avere perso il suo valore.

“Perché scrivo?” o – se vogliamo – “Perché si scrive?” è una domanda che mi accompagna non dico da quando scrivo, ma da quando ho capito con chiarezza che scrivere è una necessità. Domanda banale, tanto quanto non lo è la risposta. Io, ad esempio, il perché non l’ho ancora trovato. Ma ho trovato – e con gran soddisfazione – una moltitudine di perché.

Perché si scrive (e perché non lo si fa)

D’altro canto quello della scrittura era un fil rouge pure del mio primo romanzo, “Le mille verità, anche se non esibito: nella storia tutti hanno un motivo per scrivere, vuoi per scappare dalla noia (Paolo), per cercare la verità (Sabrina), per combattere una battaglia (Ettore), per lasciare traccia di sé (il papà di Sabrina) o magari semplicemente per dichiarare il proprio amore al presidente russo, Vladimir Putin, come fa la barista Elena.

Gli è esattamente speculare il secondo romanzo, “I giorni delle cicale, in cui tutti osservano, pensano, studiano o cercano qualcosa. Ma nessuno scrive. E’ significativo, perché questa storia è nata in un periodo di rifiuto verso la scrittura. In cui mi è nato perfino il dubbio che scrivere tanto, anziché leggere tanto e pensare tanto, sia perfino immorale.

E questo disincanto lo dichiaro senza veli nel finale. Che dice al lettore: ci sono cose nella nostra immaginazione che, insistendo a volerle scrivere, si finisce per sciuparle. 

E già i motivi esposti ne “Le mille verità”, uniti ai dubbi degli anni successivi, sono un buon punto di partenza per continuare a chiedermi perché le persone scrivono. Che assomigliano molto ai motivi per cui le persone dipingono, compongono musica, disegnano fumetti o, semplicemente, immaginano.

Mi è venuta voglia di provare a metterli in fila, non dico in ordine, questi motivi, inseguendo una sensazione: che dietro a ciascuno di questi “perché” ci sia un mondo da scoprire, che vibra di emozioni, ricordi, esperienze.

L’idea è di esplorare questi perché in cinque o sei capitoli. Nel primo, cioè nel prossimo post, mi piacerebbe riflettere sulla scrittura come gioco.

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