“Nel tuo romanzo i personaggi fanno una vita tristissima e piena di problemi, ma non c’è nessuna speranza che possa migliorare”.
Evviva, una critica. Me l’ha fatta stamattina uno studente di un liceo, in cui ero invitato a parlare de “Le mille verità” e di fake news, social network e informazione.
Non è la prima critica che ricevo ad alcuni aspetti del romanzo (per fortuna), ma mi è sembrata particolarmente profonda e ha centrato un elemento fondamentale del libro, frutto di una scelta precisa.
In effetti, il romanzo è un distillato di cinismo, appena stemperato dalle numerose situazioni comiche. Mette in scena una manica di idioti e sfigati, ma non offre loro alcuna possibilità di redimersi. Neppure la soluzione del mistero al centro della storia, in effetti, offre qualche tipo di conforto.
Mi verrebbe istintivo rammentare una dichiarazione di Monicelli, rilasciata poco tempo prima di morire, in cui sosteneva che la speranza è una trappola, ideata dai potenti per tenere buoni i poveracci. Ma è così?
La sentenza del regista è tanto drastica, quanto profonda. Eppure posso capire che un adolescente difficilmente possa riconoscersi nella visione del mondo di un anziano. Insomma, alla fine mi ritrovo a metà via (sarà per ragioni anagrafiche), tra la fame di speranza di quello studente e la disillusione dell’adulto impegnato.
Francamente, fatico a trovare quotidianamente indizi che le cose possano migliorare. Eppure, allo stesso tempo, mi sembra che non ci sia alternativa alla speranza che le cose possano migliorare.
Il cinismo de “Le mille verità” nasce certamente dalla constatazione che un idiota rimarrà un idiota, nonostante tutto. Ma è anche una provocazione, tanto quanto lo è il finale.
Io ci credo, nelle piccole cose belle. Ne vedo ogni tanto nel mio lavoro con le associazioni e nascono dall’impegno delle persone ad aiutarsi a vicenda, a mettere in gioco la propria intelligenza e creatività, a fare qualche sacrificio per un ideale.
Il problema non è l’illusione di un mondo diverso, ma la passività. Il male di questi anni è la nostra abitudine di affidare le nostre speranze a leader e capipopolo. L’ultima cosa che mi interessa è essere una guida, dare lezioni di morale e offrire soluzioni facili. Quando mi accorgo di agire in questo modo, mi infastidisco verso me stesso.
Il finale aperto e queste vite che rimangono insolute dicono esattamente questo: fatevelo voi il finale, costruitevela voi la speranza, non aspettatevi nulla da me. C’è un potere smisurato e creativo nella testa del lettore. Ed è questo potere che rende vivo un libro, oltre le intenzioni e le capacità di chi l’ha scritto.
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