La malinconia di un libro che finisce, credo, la conosciamo tutti. Fin da piccolo, un buon libro mi lasciava l’amaro in bocca del congedo dai personaggi con cui avevo condiviso avventure, emozioni, alti e bassi della sorte per diverse ore della mia vita. Potrei dire lo stesso, ovviamente, per film o serie a fumetti.
Che questa malinconia sia uno stato d’animo condiviso, mi azzardo a dirlo per varie ragioni. Quanto meno, spiega la logica di molti sequel inutili di film osannati, seguiti spesso nati non tanto per dare uno sviluppo ad una trama, quanto per riproporci personaggi e atmosfere a cui ci eravamo affezionati.
Che spesso questi sequel siano delle complete ciofeche, ci dovrebbe convincere a rassegnarci ad una legge immutabile dell’esistenza: tutto ciò che ha un inizio, ha una fine. Non so se “malinconia” descriva uno stato d’animo uguale per tutti, ma credo che a tutti piacerebbe poter continuare a leggere quasi all’infinito le avventure del nostro protagonista preferito, un po’ come tutti vorremmo trascorrere più tempo con le persone con cui stiamo bene. Salvo poi lamentarci di sequel loffi, serie a fumetti che si trascinano stancamente e senza idee, rapporti umani che proseguono per inerzia.
Che le cose debbano finire è perlomeno un dato di fatto. I lutti letterali o metaforici nel corso della vita si susseguono con lo scorrere delle lancette dell’orologio. Finisce la scuola materna e i nostri figli passano alle elementari. Finiamo le superiori e non rivedremo più ogni giorno (in alcuni casi non rivedremo proprio mai più) le persone con cui condividevamo diverse ore al giorno. Finiscono le amicizie. Finiscono le storie d’amore. E tutti questi traguardi e partenze, assieme alle cose “eterne”, ci conducono al finale definitivo, oltre il quale probabilmente non c’è più nulla.
A volte mi è capitato di pensare che c’entri anche quell’altra sensazione, che ti prende quando, arrivato al termine di un sentiero di montagna, inizi a scalare con lo sguardo le montagne intorno. O quando, sulla riva del mare, ne cogli l’infinità, oltre la quale esistono altri paesi e altre storie. O, ancora, quando alzi lo sguardo al cielo in una notte limpida. Insomma, quella sensazione che resti sempre un nuovo confine da valicare.
Quando ho scritto il finale delle “Mille verità” avevo ben chiare queste leggi dell’esistenza e stampati in mente una serie di finali, anche amari, che hanno fatto parte della mia vita. I finali della vita, poi, sono in genere dei finali del cazzo: alcune cose finiscono semplicemente, senza particolare enfasi, mentre altre finiscono addirittura in modo totalmente ingiusto e inaccettabile.
Più di qualcuno mi ha chiesto delucidazioni sul finale (o sui finali) del libro. C’è stato anche chi mi ha proposto una sua interpretazione del finale. Buon segno: l’idea era di lasciare il finale aperto. Non per tenere aperta anche la possibilità di un seguito, ma per tutto quello che dicevo prima.
Insomma, le cose finiscono e basta. E a volte, mi viene da pensare, è bene che finiscano. Come ci dimostrano i sequel di film epocali, ma anche le rimpatriate tra ex compagni di scuola, spesso dare un seguito a ciò che doveva essere finito e basta può essere tremendamente deludente.
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