“La fiamma”: Dylan Dog come deve essere

E’ in edicola un numero di Dylan Dog che non me la sentivo di perdermi, vista la coppia di autori in campo: Emiliano Pagani e Daniele Caluri, quelli di Don Zauker e di Nirvana, per la prima volta insieme sul fumetto di casa Bonelli.

La loro storia, “La Fiamma“, mette al centro gli scontri tra manifestanti in un quartiere londinese e la polizia in assetto antisommossa, con Dylan Dog impegnato contro un inquietante “cattivo” sbucato dal fumo dei roghi e dei lacrimogeni.

In verità, la faccenda non è così semplice. E questo è il bello. Il “cattivo” non è un mostro o un villain. Non è un singolo, ma un fenomeno. Il che non lo rende meno pauroso, semmai il contrario.

la fiamma

Questa è una storia di Dylan Dog al 100%. E’ esattamente il Dylan Dog che mi aspettavo di leggere nel 2017. Ancora più schiettamente, questa è una storia di Dylan Dog come mi sarei aspettato scritta da Sclavi e disegnata da Casertano, per citare un duo classico.

Intendo le storie dello Sclavi più recente, in cui la fantasia va a briglia sciolta e la trama è un pretesto per sintetizzare una “morale” più profonda sui tempi in cui viviamo, talvolta in modo leggero, talvolta più malinconico. (Del resto, i Paguri usano da sempre il registro umoristico per dire cose spietatamente serie).

Non cito Casertano a caso. Penso alla sua capacità di unire le scene di azione all’espressività dei personaggi, ma anche a come il suo tratto riesce a rendere benissimo il registro comico e quello grottesco. I disegni di Caluri mi richiamano esattamente questo modo di narrare Dylan Dog.

Non penso sia un caso, visto il curriculum degli autori. Anzi, semmai avrei apprezzato che calcassero più la mano sul lato grottesco e comico. Ma va detto che la storia non è per nulla leggera, né consolatoria.

La morale è complessa e forse per questo viene restituita in modo un po’ didascalico alla fine. Al centro non c’è tanto la Polizia, quanto il potere. Che sono nei nostri confronti allo stesso tempo servi e padroni, vittime e carnefici, come ci dice un personaggio chiave (tratteggiato sulle fattezze di un mitico cantante e flautista inglese). Di conseguenza, anche noi siamo allo stesso tempo padroni e servi del potere.

Sarà mica un caso che, nei vari scontri con il malvagio, misterioso e inquietante celerino, il pacifico Dylan Dog si ritrovi a specchiarsi nella visiera del suo casco. Il problema, pare spiegarci la vicenda, è la nostra abitudine alla delega per pigrizia e viltà: scarichiamo sul potere le nostre responsabilità, salvo lamentarci contro lo stesso potere quando non siamo soddisfatti.

Il finale, dicevo, non è per nulla consolatorio. L’armata di bravi cittadini armati di scope e scopettoni, che scende in strada per ripulire dai danni causati dagli scontri, non mi sembra per nulla consolatoria. Per certi versi, anzi, è inquietante.

Come in molte storie del Dylan Dog classico, la morale della favola è che i mostri siamo noi, il nostro quieto vivere e la nostra indifferenza. Che, va detto, fanno più morti e feriti di qualsiasi organizzazione terroristica.

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