“Splendore a Shanghai”: una dichiarazione d’amore alla musica

Mi sono dato un buon proposito (uno tra i tanti): finito un libro, prendermi il tempo di rifletterci sopra. E dato che il mio metodo per riflettere è scrivere, provare a scrivere qualcosa sull’ultimo libro letto. Avevo già scritto qualcosa su “Qualcosa, là fuori” di Bruno Arpaia, vediamo se mi riesce di continuare. Ho appena finito di leggere Splendore a Shanghai” di Gianfranco Manfredi. Ecco alcune considerazioni.

In generale, Manfredi è nella rosa di quegli scrittori per i quali, all’uscita di un loro romanzo, abbandono qualunque cosa stessi leggendo in quel momento. Di lui ho sempre apprezzato la natura poliedrica (cantautore, romanziere, fumettista), la leggerezza con cui ambienta vicende fittizie in contesti storici accuratamente ricostruiti, talvolta poco noti e sfruttati dalla narrativa, e infine l’irrompere di elementi visionari in queste ambientazioni così razionalmente presentate (ma in “Splendore a Shanghai” quest’ultimo aspetto manca, per la verità).

Il ritmo, innanzitutto. Il romanzo prende il via subito: fin dalle prime righe, il ritmo è perfetto e coinvolgente. Si entra immediatamente nella narrazione, senza tanti preamboli. Del resto, ci sarà tempo per fermarsi, più avanti, quando le vicende dei protagonisti si intrecciano con la storia del Novecento.

Come in tutte le narrazioni di Manfredi, la forza della storia è nei personaggi. Qui, come in altre sue opere, c’è un personaggio sui generis, che non è un eroe, ma nemmeno un antieroe. Il personaggio principale, il giovane pianista Doremì, è un mix di forza e fragilità. Non è un perdente, anzi. Ma non è neanche un uomo tutto d’un pezzo. Ma sono proprio le sue fragilità a interessare. Si capisce fin da subito che, come tutti i buoni personaggi, ha qualcosa di irrisolto. E allora ne segui le vicende, soprattutto all’inizio, curioso di vedere cosa gli accadrà, come reagirà, come chiuderà ciò che è rimasto aperto.

Come altre opere di Manfredi, il plot è basato non sull’eroe principale, ma su un “coro” di personaggi ben delineati: la cantante russa Olga è il perfetto contraltare a Doremì. Anche lei ha molte ferite, che ci vengono accuratamente celate, e proprio l’attesa di svelare almeno parte delle ombre che nasconde porta a sfogliare il libro fino alla fine. Pagina dopo pagina, si delinea sempre più anche Ernesto, che pure resta alla fine il personaggio del trio la cui vicenda sembra ancora aperta a future soluzioni.

Poi c’è il conte, l’ultimo a spiazzarci, alla fine. Mentre gli altri trovano un loro equilibrio, lui, proprio nelle ultime pagine, alla rapidissima svolta del finale, tira fuori un volto inaspettato. Appare una persona completamente diversa da quella che avevamo conosciuto per quattrocento e rotti pagine. Eppure, anche questo cambio di prospettiva è profondamente coerente. Tra l’altro, nella vita reale, capita non di rado che le persone si rivelino completamente diverse da quello che ci erano sembrate. Specie nei momenti di crisi e di tensione.

Il libro (ambientato tra gli anni Venti e Trenta) è molto lungo, la trama è composta da molte trame, che si sovrappongono e risolvono mano a mano. Se la prima parte fila via come un magnifico sogno, trasportati dalla piccola Senigallia alle luci e alle notti di Shanghai, la seconda parte rallenta decisamente. Qui irrompe la Storia, altro elemento tipico dei romanzi di Manfredi. Siamo costretti a fermarci di più, per contestualizzare ciò che succede: la guerra civile in Cina, il bombardamento giapponese di Shanghai, la repressione. Eventi storici pesanti e solo superficialmente conosciuti, che ci vengono spiegati rapidamente in varie parentesi storiche.

In questa parte, in cui i personaggi sembrano in balia di eventi più grandi di loro, sembra di smarrirsi con loro, nel senso di non capire in che direzione stava andando la storia. Poi arriva il finale, rapido e risolutivo. Finale nel finale, l’incontro fatale tra Doremì e Anna May Wong, che chiude il cerchio, è la vetta della storia. Bellissimo ed emozionante.

Nei romanzi di Manfredi, dicevo, la storia e la finzione si mescolano, tanto che personaggi reali irrompono nella narrazione. Sono molti i personaggi storicamente esistiti, che intrecciano le loro vicende con quelle di Doremì, Olga ed Ernesto. Alcuni sono così ben caratterizzati, da sembrare inventati. La musicista Valaida Snow è l’esempio meglio riuscito: quando esce di scena, si sente la sua mancanza.

E poi c’è la musica: fin dalle prime mosse, una variegata colonna sonora ci accompagna nella lettura delle quattrocento e rotti pagine di romanzo, passando dalle improvvisazioni di Doremì per il cinema muto all’opera, dalle “canzonette” composte dal protagonista per serate di charleston fino alle melodie su scale pentatoniche della tradizione cinese. Il romanzo è in qualche misura una dichiarazione d’amore per la musica e una continua riflessione sulla musica, sulle sue strutture, sulla sua funzione di intrattenimento, sul suo rapporto con il cinema.

Un’ultima riflessione, molto personale: amo libri come questo, che rimandano ad altri libri, a film, a musicisti. In altre parole, che ti spingono ad allargare ulteriormente i tuoi orizzonti. Un libro che ti fa venire voglia di leggerne un altro, secondo me, è un oggetto prezioso.

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